Ciao a tutti!
Dopo qualche mese di impegni, torno per condividere il mio ultimo articolo scritto per Le Salon Musical. Si tratta della recensione - a tratti un po' personale forse - del concerto che il pianista russo Mikhail Pletnev ha tenuto presso il Teatro Regio di Parma, lo scorso 18 Marzo.
In programma c'erano i 24 Preludi Op.11 di Scriabin e il 24 Preludi Op.28 di Chopin.
Purtroppo il teatro vieta ogni forma di fotografia, pertanto non è stato per me possibile fare qualche scatto.
L'articolo si può leggere sul sito de Le Salon Musical, a questo link, oppure qui sotto, per esteso:
"Un Pletnev a tratti inaspettato, quello che si è potuto ascoltare lunedì scorso, 18 Febbraio, al Teatro Regio di Parma. In programma, i 24 Preludi Op.11 di Scriabin e i 24 Preludi Op.28 di Chopin. La scelta di anteporre il compositore russo, successivo al maestro polacco in termini cronologici, mostra una evoluzione “al contrario”, che presenta prima il risultato e poi il punto di partenza – o quanto meno di ispirazione.
Il pianista si presenta sul palco con la sua consueta calma,
quasi sacerdotale, ma attacca alla tastiera senza quasi sedersi. Il primo
preludio di Scriabin si apre quieto, non certo Vivace come da spartito,
ma ampio, che respira. Pletnev si prende il tempo si lasciar viaggiare il suono
– un suo tratto distintivo, si potrebbe dire – e che esso si esprima tanto
quanto i temi o gli intrecci polifonici della scrittura. Ecco che i segni del tenuto,
sparsi qui e là sulla parte, divengono canto immaginario, tema nascosto –
proprio come in Chopin (si pensi ad esempio allo studio in Sol bemolle dell’Op.25).
Anche il fortissimo finale non è un vero e proprio fortissimo; è
piuttosto una generosità di risonanza, col pedale sempre dosato con attenzione,
di quell’ottava di do bassa, che si sparge nel teatro come un’onda senza
spigoli.
Questa è l’impronta che non solo i Preludi di Scriabin
avranno durante la serata, ma anche quelli di Chopin. Pletnev sembra riscoprire
qualcosa di valore che risiede nella calma. Ma non tanto quella dei tempi
seduti o dei caratteri esangui, quanto nelle grandi tensioni ma sorde,
sommerse; nell’ascolto profondo e nella meditazione lucida sugli struggimenti,
sui dolori e le agitazioni che animano e generano alcune di queste pagine.
Da questo punto di vista, la prima parte del concerto è stata
resa con una chiarezza e una permanenza di grande rilievo. Quasi ogni preludio
era connesso al precedente grazie al sapiente uso dei pedali, o di alcune
risonanze. La visione è nitida, giunge senza interferenze. Eppure sembra ci sia
una sorta di abbandono, dietro. L’abbandono di un punto di vista, ora
inattuale, che attribuiva a queste brevi pagine qualità esibizionistiche aldilà
delle quali Scriabin sembrerebbe adombrare l’anima, in favore di un altro che
ne raccoglie l’intimo animo di confessioni, a tratti quasi di estatiche improvvisazioni,
che mettono a nudo il compositore, dando maggiore dignità alla sua essenza di
essere umano oltre che di musicista.
Pensiamo a preludi come il n.4, in Mi minore, dove alla linea
cromatica narrante della sinistra si alterna un controcanto della destra, resi
da un Pletnev che scava nella sua esperienza di direttore d’orchestra,
attribuendo timbri diversi, riconoscibili e distinguibili. Oppure ad altri come
il n.6, il n.8 o il n.11, dove l’agitato diviene qualità interiore
invece che di metronomo – il n.8 in particolare, in cui l’agitazione si
trasforma in esitazione, dubbio. Questa rinnovata visione trasforma anche il
celebre n.14, che rinuncia indubbiamente un vero e proprio Presto per
esaltare il “canto” della sinistra, i piano, i mezzoforte, o gli
sforzati della destra; abbandonando la violenza di altre interpretazioni,
specie nella chiusura. Il n.16 stupisce per la delicatezza delle parti non
tematiche – essenzialmente sussurrate – e il tema che richiama immediatamente
la celebre Marcia Funebre chopiniana. Il n.18 si allontana dalle
esecuzioni degli anni ’90, alleggerendo moltissimo le ottave della sinistra e
dando alla destra maggiore rilievo. Si arriva, così, senza quasi rendersi
conto, al n.24, che chiude il ciclo con un Presto molto elastico,
scorrevole senza rompere le legature, e con degli accenti che, ancora una
volta, trattengono e fanno risaltare chiusure di frammenti, cambi di armonia.
Solo in coda il tempo si dilata, e torna a un’immagine sonora vicina a quella
del n.1, dove i cicli del suono hanno valore primario e le risonanze viaggiano rotonde.
Dopo una breve pausa il pianista russo torna sul palco, e con
la stessa subitaneità attacca il primo preludio di Chopin – questo è sì agitato,
ma delicato, esaltando la linea “del pollice” della mano destra – ma è il
secondo a stupire: l’andamento non è propriamente Lento, anzi è quasi agitato
(forse il tempo tagliato ha dato adito ad una interpretazione meno seduta del
brano); e il mormorio lamentoso della sinistra, dall’uniformità di tocco
impressionante, è invadente, è elemento che sembra voler disturbare l’eloquenza
del canto della destra. Il preludio n.3 è giustamente Vivace (ma non
velocissimo come in certe esecuzioni), e il moto perpetuo della sinistra ha
quasi il timbro “sillabato” di un clarinetto che quello di un violoncello.
Un elemento curioso di questa esecuzione chopiniana di
Pletnev, mantenendo l’approccio “umanizzante” e introspettivo già citato per
Scriabin, è stato quello di moderare le velocità rapide e di sostenere i Largo
o i Lento assai, facendo in modo che il suono dei cantabili rimanesse
percepibile. Questo è accaduto, ad esempio, nei preludi dal n.4 al n.7 (ma
anche per il n.9). Con il n.8 Pletnev si riavvicina al n.1 per certi versi,
esaltando quasi solo “i pollici” e sussurrando tutte le altre note della
destra.
Passando per il n.12 in Sol diesis minore, caratterizzato da
una gamma di varianti del forte molto elastica e mai violenta, e il n.13
di cui è doveroso citare la sezione centrale, Più lento, per
l’incredibile maestria orchestrale – in particolare negli accompagnamenti della
mano sinistra – si arriva a preludi come il n.14 o il 16. Pletnev qui è
sembrato avere una sorta di momento di disconnessione, di separazione dallo
stato estatico in cui si trovava immerso, e avere qualche cedimento, qualche
smarrimento, e così è stato, bene o male, fino alla conclusione del ciclo. Il
n.14 è molto più lento che in passato, e non sembra veramente a fuoco; dopo il
celebre preludio in Re bemolle, nel n.16 – da sempre eseguito ad una velocità
più seduta della media, ma con una chiarezza e una asciuttezza davvero rare –
torna quel senso di smarrimento, come se sfuggisse un po’ dalle dita, e la
chiarezza di quel flusso ininterrotto di sedicesimi va un po’ perdendosi.
La stessa cosa si è avvertita, in parte, nel n.17, scisso tra
momenti di meraviglia sonora e altri di dispersione. Il n.18 non era affatto Molto
allegro, ma più un recitativo, preso con tutta calma e con una gamma di
suono che arriva forse al forte, ma mai al fortissimo. Coi
preludi nn.19, 20 e 21 Pletnev sembra gradualmente riprendere confidenza con le
intenzioni iniziali, ma sono il n.22 e il n.23 ad essere i più messi a fuoco – doveroso
fare cenno alla chiarezza cristallina di quest’ultimo, che non poco lo avvicina
a un preludio di Bach. Chiude il n.24, che risente nuovamente di quelle
interferenze. La velocità più calma e l’ampiezza del canto non sono motivo di
disturbo, quanto un poco senso di unità, e un senso di “stanchezza” nell’ultima
pagina, tanto da giungere agli ultimi, perentori Re quasi accasciato sul
pianoforte, dando le spalle al pubblico.
Se, in parte, ciò abbia forse costituito un calo di tensione
e di coinvolgimento per chi ascolta, dall’altra parte ha restituito un enorme
senso di umanità, anche di fragilità. Tante, troppe volte ascoltiamo questi
meravigliosi cicli eseguiti con un fondo di dimostrazione. Come se l’interprete
fosse chiamato a stupire, a spettacolarizzare una musica che, al contrario, è
fatta di brevi momenti colmi di sincerità, di impeto ma anche di fragilità.
Questo non vuole essere un’attenuante, perché in questo concerto alcuni
cedimenti ci sono stati; piuttosto, semmai, vuole ricordare che anche chi si
trova sui palchi più importanti del mondo resta sempre un essere umano. Un
essere umano che, per quanto si possa proporre la quiete e la magia (e il più
delle volte riuscirci dandoci un’impressione disarmante di semplicità), può
avere squarci di fallibilità. Per qualcuno, anche ciò può essere materia per
osservare, per ascoltare musica attraverso un essere umano.
Tali squarci, evidentemente, non hanno spento l’entusiasmo
del pubblico, che ha richiamato Pletnev per tre volte sul palco ad ognuna delle
due parti del concerto con enormi applausi ed elogi. I bis sono stati due: Arabesque,
di Schumann, e lo Studio Op.72 n.6 di Moszkowski, studio di cui tutti,
credo, conosciamo il livello dell’esecuzione."
A breve posterò anche qualche fotografia e link di un recente concerto che ha visto me e la mia collega e amica Federica Castro alle prese con un programma dedicato alla figura della donna nella musica.
A presto!
Andrea