lunedì 15 maggio 2017

Concerto "Arpa e Art Nouveau" di Giuliano Mattioli a Villa Guardia

Non avevo mai avuto occasione di ascoltare un concerto per arpa solista. L'arpa è uno strumento meraviglioso, sia dal punto di vista estetico -specie se si tratta di una Erard Luigi XVI come quella che ho potuto addirittura osservare da pochi centimetri di distanza- che da quello musicale, tante sono le sue capacità espressive e sonore.
Sabato scorso, 13 Maggio, sapevo che il mio "collega" e amico Giuliano Mattioli avrebbe tenuto un recital interamente dedicato al suo strumento, con una selezione di brani per sola arpa e per arpa in accompagnamento alla sua stessa voce, così mi sono tenuto libero appositamente per non perdermi la chance di esserci.
Certamente non sono la persona più ricca di esperienze musicali, di concerti assistiti e quant'altro, ma credo sia stato uno dei concerti più particolari, belli e interessanti a cui ho avuto piacere di presenziare. 

Il titolo della serata era "Arpa e Art Nouveau". E ciò non è soltanto voluto, ma anche assolutamente azzeccato: un programma che mostrasse le grandi capacità di questo strumento nel periodo del suo -se possiamo dirlo- massimo splendore, ovvero la Belle Epoque; ovvero Parigi, ovvero i decenni a cavallo fra la fine del '800 e l'inizio del '900.
Ho apprezzato l'introduzione che Giuliano ha fatto al suo concerto, così come ad ogni "fase" del suo programma: ha avvicinato il pubblico al repertorio e ha dato ologrammi di ciò che potevano essere i tempi, i contesti in cui i pezzi sono stati scritti, senza risultare prolisso o inutilmente dilungato. Il programma conteneva sia composizioni originali che trascrizioni, e brani in cui l'arpa faceva le veci del pianoforte nei Lieder e in cui lui stesso cantava accompagnandosi. 
Proprio quest'ultima tipologia di momenti hanno stimolato la mia immaginazione, catapultandomi -per assurdo o strano che possa essere- ai tempi dell'antica Grecia, in cui la monodia vocale accompagnata dalla lira era una pratica peculiare. 
Un momento della serata, con Giuliano che illustra il programma
Il programma si è aperto con una trascrizione di Grandjany del Largo della Sonata per violino BWV 1005 di J. S. Bach, succeduto dal famosissimo Coucou di Daquin nella trascrizione di Renié, che io conoscevo soltanto nell'esecuzione pianistica di Gyorgy Cziffra. E' stato bello e divertente vedere come una stessa partitura possa cambiare, sembrare quasi un'altra, nell'espressione e nel "colore" oserei dire, al cambiare dello strumento.
Dopo l'arietta Amore e morte di Donizetti da Soirées d'automne a l'Infrascata e la celebre Ouverture della Gazza Ladra rossiniana nella trascrizione ben riuscita di Bochsa, ecco giungere a due brani -molto belli!- concepiti proprio per l'arpa: l'Etude Op.34 n.38 sempre di Bochsa, e il Prélude Op.53 n3 di Hasselmans (compositore del quale, onestamente, conoscevo a malapena il nome). Quest'ultimo mi ha ricordato il clima di certe composizioni appassionate di Schumann, o certi lieder di Schubert con la stessa inquietudine poetica.
Ma è con il successivo Ravel e le sue Cinq mélodies popoulaires grecques che, a parer mio, la serata ha toccato il punto più alto. Conoscevo già questi brevi brani -uno, la Chanson de cueilleuses delentisques, l'ho utilizzato anch'io per un esame di lettura della partitura, anni fa...- ma era la prima volta che li ascoltavo eseguiti per intero e con l'arpa in ruolo d'accompagnatore: sono stati bellissimi, a tratti anche commoventi. Trovo la voce di Giuliano assolutamente adatta al suo strumento, una voce che non ha l'impostazione lirica di un possente tenore d'opera (forse troppo "invasiva" se associata a uno strumento così particolare e pieno di personalità) ma che si amalgama benissimo con le sonorità dell'arpa. Nel filmato seguente si possono ascoltare tre delle cinque mélodies, eseguite proprio da Giuliano:


Il programma prosegue con una stupenda Légende di Cesare Galeotti piena di slancio febbrile, peccato che il fato abbia voluto far rompere una corda sul momento più bello! Ma ciononostante l'esecuzione è stata più che ben riuscita e l'emozione non ha subito alcuno scossone: anzi, forse il pubblico si è unito a Giuliano, infatti è sfociato in un applauso.
Quindi è stato il turno del brano Morire? di un riconoscibilissimo Puccini, per voce e arpa, e del lied Ce que chante la pluie d'automne di Tournier, che ho molto apprezzato.

Concludono il concerto La lettre du jardinier per voce e arpa ancora di Tournier, e le variazioni per arpa sola sulla melodia popolare russa "Nochenka" di Vinogradov. Entrambi i brani li ho apprezzati molto, specialmente le Variazioni, nelle quali il colore tipicamente russo era molto presente. Giuliano ha letto il testo della lettre prima di eseguire il lied, dando al pubblico la possibilità di gustare la bellezza della musica grazie anche alla conoscenza del suo contenuto.

Un applauso prolungato richiama l'esecutore sul "palco", che ringrazia e saluta i presenti con l'allegria "spavalda" di una canzone napoletana di Donizetti, Me vojo fà 'na casa.
Veramente un ottimo concerto, con una scelta di repertorio che ho caldamente suggerito a Giuliano di riproporre, qualora ne abbia occasione.

Andrew





sabato 13 maggio 2017

Etude-Tableau

Crolla in pezzi un faro di mare, crolla
a rilento
schiantandosi nelle onde:
assoluto
completo silenzio

E' sabbia stanca, è carta pesta
mattoni e malta hanno esaurito le forze

Si apre nel nulla
una lenta, dolcissima musica
mentre tutto crolla in silenzio.
E' un Etude-Tableau di Rachmaninov

La fiaccola del faro
ingoiata dalla foga della tempesta
continua a brillare dal fondo del mare.

Andrew

lunedì 8 maggio 2017

Il silenzio e la polvere

Tutti vediamo come ogni cosa rotoli, seppur lentamente, verso il nulla. Ogni cosa si autodistrugge inevitabilmente, e spesso dà l'impressione di trarre piacere nel farlo.
Si squarciano nonsense, simboli difficili anche per simbolisti allenati e allucinazioni che squietano anche i migliori romantici. Tutto ciò è accompagnato da due cose: il silenzio e la polvere.
Il silenzio rotola accanto, mentre la polvere avvolge. Entrambi inerti, quasi comodi e quasi anche compiaciuti. E quando l'occhio si posa si questa scena con la consapevolezza che accade davvero, non ha voglia di combattere. Non ha voglia di (re)agire, non ha voglia di intervenire ma lascia fluire restando a guardare, passivamente. Lascia impassire questo sgretolamento perpetuo, questa levigatura paziente e continua.
Il silenzio allude ad illudere che tutto ciò sia un frammento infinito ma un frammento, e quindi finito in se stesso, verosimilmente innocuo, immobile e incasellato: una sorta di porzione di filmato che si ripete roteando su se stesso, e nella cui inquadratura non c'è nulla che testimoni un cambiamento. Forse due fili d'erba a bordo strada che si muovono sospinti dall'aria di città, o qualche pezzo di carta o un mozzicone gettato come testimoni di un'evoluzione terminata e intrecciata nel corso degli eventi così com'è, destinata a non ricevere alcuna alterazione. La polvere è il simbolo del tempo che invece passa, che trascorre e porta con sé tutto ciò che trova: una inapparente, violenta piena di fiume. La polvere si (ri)posa sulle cose senza fare rumore, senza disturbare, ma lentamente ne nasconde le vere caratteristiche, ne opacizza i colori, le rende meno interessanti, meno degne di attenzione. Paradossalmente, l'immobilità di un oggetto è trasfigurata dal depositarsi della polvere, che non ne altera lo stato o la posizione, ma attesta -attraverso il suo spessore- che il corso degli eventi non è intervenuto in quel punto in particolare, ma ha trascinato quest'ultimo con sé così come lo ha raccolto.
Le istantanee non sempre sono felici espedienti con cui avere souvenir di ciò che è stato e -forse- non sarà più; non sempre sono ritratti di un tempo felice o triste che si sente il bisogno di perpetuare -materialmente, di volta in volta, momento dopo momento- nel presente: spesso sono contrappassi, sono esangui torture, riesumazioni che stridono come gesso sulla lavagna, che lanciano fitte al fianco. Costrette e costrittive, sadiche memorie.

Tutti vediamo come ogni cosa rotoli, seppur lentamente, verso il nulla. Ogni cosa si autodistrugge inevitabilmente, e spesso dà l'impressione di trarre piacere nel farlo. 
Tutto ciò è a tempo presente, ma ogni momento che passa è già finito, morto e andato. Non c'è rete abbastanza fitta o abbastanza grande che permetta di ripescarne anche solo uno.
E, di fronte a tutto ciò, a tutto questo condursi al niente, forse, perdersi un po' -o per sempre- non è sbagliato: dà l'illusione (che, così tanto sovente, diventa necessaria e quasi vitale pur sapendola come tale) di abbandonare le braccia ed essere immobili; di adagiarsi e di aver "comprato" un po' del tempo che passa per tenerlo fermo; di non perdere la vita.
Ci si fa amici il silenzio e la polvere, una penna che scrive, un oggetto dell'infanzia o un goccio di assenzio per sopravvivere a quest'opprimente biglia rotolante verso l'ignoto, il cui sussurro discreto finisce per diventare un assordante grugnito. 
Viva la perdizione, il crogiuolo e l'oblio. Vivano essi, fonti pure di ossigeno per gli animi insofferenti.
Vivano sempre gli strumenti che consentono all'uomo di raggiungere questa pausa sul pentagramma senza fare male né a se stesso, né a nessun altro.
Perdersi non è peccato. E' aver sempre bisogno di trovarsi, che ci tiene in gabbia.

Andrew