venerdì 23 marzo 2018

Concerto dell'Achrome Ensemble (Incontri Europei con la Musica - 17 Marzo 2018)

Con un certo ritardo, ma vorrei scrivere brevemente di un concerto al quale sono stato Sabato scorso presso la Sala "Alfredo Piatti" di Bergamo, luogo che conosco ormai abbastanza bene visto che anch'io ho avuto l'occasione di suonarci. 
Compreso nella 37ma edizione degli Incontri Europei con la Musica, il programma proposto dal Achrome Ensemble proponeva composizioni cameristiche (originali o trascritte) di Debussy, Berg e Schoenberg.

Ad aprire il concerto è stata la bellissima Sonata per violoncello e pianoforte debussyiana. Opera tutto sommato di piccole proporzioni, ma ricca di inventiva, di giochi ritmici piccanti ed effetti strumentali estremamente variegati, è forse l'opera camerista di Claude che preferisco. Certi richiami ad atmosfere antiche, quasi cortesi, le scritture asciutte ed essenziali, i dialoghi fra gli strumenti coinvolgono l'ascoltatore in una atmosfera che alterna grottesco e serioso, umoristico e patetico, lirico ed inquieto. Notevole l'esecuzione del duo Rigamonti-Rota, con una nota di merito al violoncellista, che ho trovato pienamente calato nella parte e nel linguaggio di questo gioiello cameristico.

Altro capitolo significativo, sempre di Debussy, la sua Sonata per violino e pianoforte, di due anni successiva alla precedente. Il clima qui è apparentemente più disteso, ma le sonorità sono eleganti, talvolta più massicce ed "esplosive" di quella per violoncello. Se la prima raccoglie tre creature estremamente caratteristiche, questa sembra puntare più ad un'idea di unitarietà del materiale musicale attraverso la continua elaborazione dello stesso o la riproposizione di frammenti in zone diverse della composizione. Il terzo tempo ad esempio, che ricorda le atmosfere di danza frenetica e "gioiosamente inquieta" di brani come Les collines d'Anacapri (altro brano che io adoro ed ho studiato), non manca di alludere ancora agli spunti iniziali, dando alla Sonata un carattere più compatto.

Brano inusuale e fortemente evocativo, Syrinx, per flauto solo (senza accompagnamento alcuno), richiama l'immagine di Pan e del suo mitico flauto. L'abbellimento e la continua rielaborazione di frammenti caratterizzano questo breve pezzo che sembra nascere spontaneamente dall'aria, venire da lontano, avvicinarsi, dedicare un momento di meraviglia e poi tornare da dove è venuto. L'esecuzione a mio avviso veramente efficace è stata della flautista Antonella Bini, la quale ha saputo accrescere di effetto la performance anche ad una presenza scenica notevole.

Da Debussy si passa senza interruzione alcuna a Berg e i suoi Vier Stucke Op.5, per clarinetto e pianoforte. Lontani dalla Sonata Op.1 per pianoforte, qui il linguaggio si fa aforistico e attento a questioni timbriche ed effettistiche. Ciò non influisce sulle masse sonore, che in alcuni istanti arrivano ad essere consistenti. Nonostante la loro brevità, Berg ci mette tutti gli aspetti di una ricca inventiva, un ventaglio dinamico ed agogico ampio ed un'impronta lirica nonostante lo stile espressionista. Questi quattro pezzi, visti un po' "da fuori" possono inoltre evocare il principio formale di una Sonata in 4 tempi, il cui finale opta per un andamento più lento del consueto. 
Ottima l'esecuzione di Marco Sorge, abile clarinettista capace di un bel fraseggio e di padronanza delle sonorità anche più rarefatte e ricercate.

A chiusura del concerto tutti gli strumenti si sono riuniti nella Kammersymphonie Op.9 di Schoenberg. L'esecuzione proposta, nella trascrizione di Anton Webern (l'originale prevede invece 15 strumenti), si distingue per una distribuzione interessante del carico sonoro: il pianoforte, ad esempio, si prodiga parecchio, e a lui è affidata la sostituzione di una spessa massa di elementi. Il violoncello torna protagonista della scena, specialmente nella proposizione tematica. Come è stato fatto notare dal direttore Parolini (grazie anche al ricorso all'esecuzione di brevi frammenti esplicativi), nonostante l'assenza di soluzione di continuità e l'alternanza di umori e andamenti assai differenti, si possono individuare nella Kammersymphonie i 4 tempi di una sinfonia, nonché una elaborazione del materiale compositivo affine. 
Contrariamente alle supposizioni, i venti minuti ininterrotti di musica sono scorsi senza fatica, e anche con un certo interesse. I tratti lirici e ricercati di certe sezioni mi hanno incuriosito molto. E, anche se l'opuscolo asserisce il contrario, io echi brahmsiani e tardoromantici li ho avvertiti più volte, ed immediata è stata la memoria della celebre Verklarte Nacht dello stesso Schoenberg, per le medesime arditezze contrappuntistiche.

Lascio come sempre qualche fotografia (mi rammarico di non avere fatto in tempo a scattarne una durante l'esecuzione di Syrinx... sarà stata la bellezza della esecuzione?).

A presto!
Andrew







domenica 18 marzo 2018

Sul concerto Mozart/Respighi/Neschling (LaVerdi, 18 Marzo 2018)

Fresco di ascolto, ho voglia di scrivere del concerto che ho ascoltato questo pomeriggio. Perché fra me e me, e fra me e i confronti con altri presenti ho abbastanza stimoli per farlo.
Finalmente, dopo anni che vedevo i suoi post su Facebook e i suoi video su Youtube, ho avuto occasione di essere presente ad un concerto con orchestra del pianista Federico Colli. Non nego che avrei preferito un recital solistico, ma, indubbiamente, non è certo quella di oggi un'occasione della quale disdegnare.

In programma, uno dei concerti per pianoforte e orchestra di Mozart che mi piacciono di più, il K.491, in Do minore. Uno dei due soli in tonalità minore scritti dal compositore (l'altro è l'arcinoto K.466, in Re minore), e il tono minore in Mozart ha sempre una luce tutta sua. Penso al Quartetto con pianoforte in Sol minore K.478, ad esempio. Al suo tono a tratti severo, a tratti patetico. Penso all'emblematica Sonata in Do minore K.457 per pianoforte. Al secondo movimento del Concerto per pianoforte K.456 (che ho avuto modo di studiare), un tema con variazioni totalmente pervaso da un pathos struggente, quasi ansante. All'Adagio K.540 in Si minore, che ho anch'esso studiato, con il suo alternare la tensione e la distensione armonica ai tratti quasi più marziali e fieri.
Il Concerto per pianoforte in Do minore K.491 si contraddistingue per un corposo e suadente cromatismo, il quale aiuta ed enfatizza il tono quasi tragico dell'opera. Composto da un Mozart trentenne, differisce da quello in Re minore per una ricerca di una drammaticità più interiore che plateale. L'uso frequente di intervalli come la settima minore o i frequenti salti conferiscono al discorso del solista una sorta di "frammentarietà unitaria" assai espressiva. Il fatto stesso che Mozart non utilizzi il consueto primo movimento in carattere marziale ma un 3/4 (in uno) e che la riproposizione di medesimi temi fra orchestra e solista sia sempre riccamente variata, distacca questa composizione da altre del suo stesso genere. Anche il terzo tempo in tema e variazioni aggiunge ulteriore differenza.

Si è soliti assistere, od ascoltare in cd, interpretazioni molto "virili" di questo concerto, e non saprei dire se ciò sia aderente o meno all'ideale mozartiano. Certo i contrasti di sonorità nella stessa partitura sono abbastanza chiari (osservando anche il dosaggio di masse sonore orchestrali). Ma l'esecuzione di stasera direi che, se non si contrappone a questo pensiero, comunque se ne allontana. La "lotta intima" che differenzia questo concerto da quello in Re minore, viene resa anche attraverso la rinuncia, non di rado, a sonorità decise e piene per volgersi a una sorta di lasciato intendere senza che sia detto. Niente sottolineature evidenti, niente rimarcazione, pochi contrasti. Ma un fitto dialogo fra solista e orchestra, volto a costruire un unico discorso, una sola voce narrante. Lo stesso Colli ha da sé sovente condotto l'orchestra -quasi un secondo, fine e coraggioso, direttore- specialmente in punti nel quale le sonorità del suo amato strumento si facevano esili (ma non inconsistenti) o, mi viene da dire, "malate". Diversa la situazione orchestrale, che, mi duole un po' dirlo, non ha avuto a mio sentire questa stessa eloquenza (scelte del direttore?), rivelando a volte a un suono un po' "stanco". Un conto è il malato "febbrile" al suo interno, un altro è la stanchezza un po' de-personalizzante.

Non credo di dire nulla di nuovo se descrivo il pianismo di Federico Colli come raffinato ed elegante, chiaro, ricercato, tecnicamente impeccabile, ben governato (soprattutto mentalmente, almeno per come l'ho avvertito io, e non sto certo sminuendo, anzi, chapeau). Avevo davanti un pianista che da tempo fa parlare di sé, che suona in tutto il mondo, che ha in repertorio diversi concerti con orchestra (ricordo un terzo di Rachmaninov, un secondo di Saint-Saens, un primo di Cajkovskij), e che -compatibilmente con la tensione/attenzione verso la performance- ha una certa dimistichezza e nonchalance con il genere. Forse mi serve un ulteriore ascolto per apprezzare al 100% l'interpretazione di stasera, così diversa e se vogliamo distante da una ovvia aspettativa, ma non posso in alcun modo muovere critiche contro l'unità di pensiero dimostrata.
Degne di nota, le cadenze solistiche, ricche di fantasia e originalità di lettura. Il coraggio di certe sonorità sussurrate del secondo movimento. I due bis finali: una K.1 di Scarlatti così bella e singolare l'ho sentita ben poche volte. 

La seconda parte del concerto ha visto il parco rifocillarsi di orchestrali (soprattutto ottoni e percussioni) alla volta della Sinfonia Drammatica di Ottorino Respighi.
Respighi resta, per me, un caro compositore troppo poco proposto, troppo poco considerato. Se penso a opere musicali come il Concerto Gregoriano, i Pini e le Fontane di Roma, il Quartetto Dorico e il Quartetto in Re maggiore, non posso non essere scontento per la persistente troppa poco popolarità di questo fantastico personaggio.
Meraviglioso orchestratore, l'ho sentito spesso definire come "il Debussy italiano". E forse non è così inesatto, seppure la generazione degli ottanta non aveva le stesse prerogative di un simbolista come Claude Achille. Non mancano certo le sonorità un po' esotiche, l'utilizzo di strumenti in disuso o di nuova scoperta per l'epoca, l'attaccamento alle antiche polifonie patriottiche. Ma fra quelle francesi e quelle italiane ci sono differenze sostanziali che non si possono tralasciare: lo stile delle prime, così avvezze ad abbellimenti, tilli/trillini/mordenti e quanto altro, contrapposte alla semplicità diretta delle seconde, ad esempio.

Respighi è stato, ad ogni modo, un fantastico compositore, e la composizione proposta questa sera (che dura qualche minuto in meno di un'ora) ne dà atto per chiunque desideri accorgersene. Respighi porta il poema sinfonico di Liszt in Italia (non ho mancato infatti di notare medesime maniere di sfruttamento tematico), ha scritto musica in pieno stile tonale -se non modale, nel senso antico del termine- in un periodo in cui l'avvenire della musica stava votandosi alla pantonalità e all'amore per il puro suono e la timbrica. Riesce a fondere il carattere massiccio quasi brahmsiano/mahleriano alle macchie di colore alla Ravel (Rhapsodie Espagnole) con, appunto, l'esotimo debussyiano; e, forse, anche a una certa "russianità" di Rimskij-Korsakov -col quale peraltro studiò- o di Rachmaninov (in opere come l'Isola della morte). Un'opera così imponente come la Sinfonia Drammatica, anche per la sua lunghezza non statica, ci mostra come Respighi avesse ormai coniato un suo linguaggio, un linguaggio a tratti forse non proprio immediato e non "innovativo" se confrontato con i dodecafonisti o i serialisti, ma comunque delineato e dotato di una sua singolare espressività.

Credo di aver detto quanto mi era trasalito durante l''ascolto.
Lascio qualche fotografia della serata.





A presto!

Andrew

lunedì 12 marzo 2018

Su "Musica per organi caldi"/"Hot water music" (Charles Bukowsky)

Ho recentemente finito di leggere Musica per organi caldi, raccolta di 36 racconti di Charles Bukowsky. Dopo aver, per anni, sentito parlare di questo scrittore e averne letto qua e là aforismi e poesie, mi sono deciso ad acquistare un libro, lasciandomi puramente ammaliare dal titolo. Ricordo che ero a Crema quel giorno, e passeggiando per il centro pedonale mi sono imbucato in una libreria.

Musica per organi caldi -titolo originale Hot water music- a detta della traduttrice Viciani, è un'opera di un Bukowsky al suo meglio. Contiene sia narrazioni autobiografiche (sotto lo pseudonimo famoso di Chinaski, nei cui panni l'autore si cala per come è, senza aggiungere praticamente nulla) che altri scritti di pura invenzione. Alcuni sono permeati di pura follia. Altri ricalcano a pieno episodi vissuti.
E questo si evince. Nei racconti di vita vissuta, anche se con un altro nome, traspare l'animo di una persona vera, terrena. Forse un po' caricata nel personaggio che la gente -e lo stesso Charles, bisogna ammetterlo- ha tracciato, ma comunque autentica.
Ho intenzione di leggere anche qualcos'altro, però. Una raccolta di poesie, forse. O magari un'altra selezione di racconti. Ho evitato l'arcinoto Storie di ordinaria follia perché il mio bisogno di non fare tutto ciò che fanno tutti ha preso il sopravvento. Ma forse toccherà anche a me...

Gli argomenti che vengono sistematicamente affrontati e vissuti sono sempre quelli: lo stato di precarietà economica, il vizio del bere, il sesso e la passione per le donne, la psiche e le emozioni del protagonista (a volte anche dei personaggi che passano nella scena).
Dicevo poco sopra, leggerò credo anche altro di Bukowsky. Più per un interesse personale che per una passione per lui. Mi spiego. Durante la lettura ho avuto momenti di fastidio, a tratti repulsivi nei confronti del suo personaggio. E vorrei potermi ricredere.
Questo ruolo di artista abbandonato ad una sorta di noia per la vita, cinico e disinteressato di tutto tranne quando punta un obbiettivo (una donna, una persona influente, soldi...) mi è risultato un po' troppo forzato. Poco naturale, esagerato rispetto al vero. Non dubito affatto che Bukowsky potesse essere una sorta di maudit del tardo '900, non dubito del suo smodato cinismo o del suo lato sfrenato e libidinoso, ma spesso sembra quasi voglia appositamente giocare sull'immagine che la gente si è fatta di lui, utilizzandola a suo vantaggio. 
Non che ciò sia un danno, a dirla tutta, in fondo. Dipende dal fine. Se il fine è quello di vendere il più possibile e farsi conoscere, mantenere l'occhio del faro su di sé, è certamente un modo. Soprattutto se l'alternativa è non essere considerati per nulla (ricordo che Bukowsky accettò una somma irrisoria -da fame- ma fissa, al mese, pur di abbandonare un lavoro alle poste e occuparsi della sua scrittura). Però boh, la mia sensazione è che spesso si sia volutamente adombrato e abbia indossato i panni dell'idea del suo lettore medio, in modo da tenere viva la curiosità.

Tornando ai racconti, in alcuni di essi ho trovato anche alcuni pensieri interessanti, che in sé possono esulare dal contesto ed essere presi come spunti di riflessione. Talvolta perché sottolineano dettagli non immediati, altre volte perché sono così frizzanti e particolari da stimolare la fantasia.
In La strusciata del cane bianco si può leggere: "[...] solo le persone noiose si annoiano. Devono mettersi alla prova continuamente per sentirsi vive". Oppure, in Colpi a vuoto, una riflessione fredda -ed ovviamente cinica- sull'amore dice: "L'amore è una forma di pregiudizio. Ami ciò di cui hai bisogno, ami ciò che ti fa stare bene, ami ciò che ti torna più utile". 
La tipologia di scrittura, caratterizzata da frasi spesso molto brevi, descrizioni nette e senza troppo girarci intorno, portano Bukowsky a suscitare un senso di modernità senza tempo, in un arco di tempo che a me è parso possibile di circa 200 anni. Il suo stile è evocativo senza dire tutto, spesso dicendo pochissimo. Trasmette sensazioni di tensione, di grande malinconia, di eccitamento accennando soltanto qualche dettaglio. Insomma, si fa intendere.

Concludo con un accenno al racconto che mi ha più divertito, Altro che Bernadette. Al limite del comico, sagace nel tenere il dottore (ma anche il lettore) in tensione e in ascolto fino alla fine. Andatelo a cercare, se vi va.

A presto!
Andrew

domenica 11 marzo 2018

Concerto di Henri Barda (24 Febbraio 2018)

Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho scritto su Metathymos! Escludendo il post nel quale riportavo il mio articolo su Robert e Clara Schumann pubblicato sul blog di Classicaviva, era ancora la fine dello scorso anno.

Con un ritardo di due settimane abbondanti, vorrei scrivere brevemente del concerto del pianista egiziano Henri Barda al quale sono stato alla fine dello scorso mese di Febbraio.
Il concerto faceva parte dell'ottavo Festival Pianistico Morbegno-Chiavenna, il cui direttore artistico è Michele Montemurro, ottimo pianista di mia conoscenza. Ricordo ancora la prima edizione del Festival, nella quale conobbi personalità del panorama concertistico internazionale quali Irene Veneziano (fresca del concorso Chopin di Varsavia, con uno stupendo recital totalmente dedicato al compositore polacco) e Mariangela Vacatello (la quale aveva appena inciso gli Studi Trascendentali di Liszt, ed eseguì magnificamente anche la temibile Sonata in Si minore); dell'edizione 2016, invece, ricordo l'esecuzione stupefacente dell'integrale degli studi chopiniani (tutti e 27, compresi i 3 Nouvelles Etudes, anch'essi all'epoca appena incisi) dalle mani dell'amico Alessandro Deljavan.

Tornando ad Henri Barda, non avevo ancora avuto occasione di ascoltarlo dal vivo. Mi era stata accennata la sua tendenza ad eseguire, bene o male, tutto a velocità molto sostenute, forse a causa di una forte ansia da prestazione, ma io ho avvertito anche qualcos'altro.
Il programma -molto massicco- prevedeva, nella prima parte, l'esecuzione di 5 Preludi e Fuga dal Clavicembalo ben temperato di Bach e i 4 Impromptus Op.90 di Schubert; nella seconda parte il Tombeau de Couperin di Maurice Ravel e alcuni brani scelti di Chopin (Notturno Op.9 n.3Barcarola Op.60, Impromptu Op.29, Valzer Op.70 n.2 e la celebe Ballata n.4 Op.52).
Le voci che mi erano giunte non si sono affatto smentite, ma la natura del suono devo dire che è rimasta bella per quasi tutto il tempo. Ho apprezzato tantissimo l'articolazione leggera e "ariosa" (forse sarebbe più giusto dire "areata") di alcuni preludi di Bach. Notevole anche la padronanza delle fughe, a quelle velocità. 
Alcuni brani, nonostante la rapidità, risultavano a loro modo convincenti, come ad esempio gli Impromptus n.2-3 e 4 di Schubert. Il Tombeau de Couperin è, forse, stato il momento più alto dell'intero concerto. Bellissimo il Menuet, con un finale dalle sonorità eleganti, magiche e di cristallo. Anche la Fugue, chiara nella sua visione "fantastica", e la Forlane mi hanno colpito. Coraggiosissime (nonostante qualche imprecisione di poca importanza) le scelte esecutive del Prelude -con una coda scintillante!- della Toccata e del Rigaudon.
In Chopin ho trovato Barda un pianista convinto e dalla chiara visione personale dei brani. Per non pochi versi lontana dalla consueta concezione e interpretazione, il pianista non si risparmia di stravolgere alcune indicazioni di sonorità -anche in Schubert- reinventando il senso espressivo di intere sezioni di brani (ricordo chiaramente la sezione prima della ripresa con le ottave al basso, nella Barcarola: l'autore indica piano, come se per un momento si distanziasse dal ritmo e dall'idea della barcarola stessa e raggiungesse una dimensione più lontana e sognante; Barda sceglie invece un evidente crescendo, totalmente contrario, quasi una eccitazione sonora, ma non per questo meno convincente). La Quarta Ballata cala l'ascoltatore in una scena inquieta già dall'inizio, e questa inquietudine viene protratta fino alla fine.

Indubbiamente un concerto interessante di un pianista di un certo calibro, dotato di grande personalità e fantasia. Non mi dispiace l'idea che si possa addirittura sconvolgere la scrittura musicale, nel momento in cui l'esecutore è in grado di far trasparire in modo netto e direttissimo l'emozione che gli causa. Si resta "commossi" da un "commosso". Quasi un po' come il caro Carl Philipp Emanuel Bach sosteneva.






Andrew