Fa uno strano effetto constatare di ricordare assai vividamente momenti della propria infanzia - o della prima giovinezza - i quali, differentemente, sembrano essersene andati via dai ricordi delle persone più care. Quelle persone che erano già adulte nel periodo in cui tu eri un bambino o un ragazzino in pubertà, e pertanto, tendenzialmente, forse più portati ad imprimere nella loro memoria quegli attimi, quei periodi.
L'altro giorno, parlando con mio padre, ho capito che lui non ricorda più né quando né come, o dove, o perché io iniziai il corso introduttivo di pianoforte in prima media. Sorpreso ed incredulo, mi sono ritirato in un mio adombrato angolo di domande. Diamine, eppure fu lui a pagarmelo, ad iscrivermi, a portarmi a lezione in quei pomeriggi a scuola. Ci fu anche il saggio finale, nell'Aula Magna dell'istituto che, qualche anno dopo, sarebbe diventata la mia scuola superiore. Ma più ho tentato di risvegliare la sua memoria, più cresceva la mia consapevolezza del suo non ricordare nulla.
Non ricordava neppure dei 4 anni di totale autodidattica che, in seguito, feci, per l'opposizione sua e di mia madre a farmi proseguire. Ed io, invece, tuttora ricordo (e quasi rivivo) intensamente la bramosia, la mia già germogliata convinzione nel destinare la mia vita alla musica: la delusione per la negazione di un proseguimento. Ho capito che, a suo tempo, differente com'ero di carattere rispetto a qualche anno dopo (nonché ad ora), non passò il messaggio: la mia frustrazione. Forse non fui in grado di renderla chiara, di disegnarmela in modo evidente sul volto. Forse non ne parlai sufficientemente tanto, o con la dovuta convinzione. Forse non era una ribellione abbastanza forte.
Lui nemmeno ricordava di avermi negato per anni ciò che più desideravo, mentre io di quella negazione porto ancora intimamente non un risentimento (ci mancherebbe), ma sicuramente un segno, una traccia invisibile ma fortemente percepibile.
Com'è facile arrecare danno a qualcuno senza accorgercene. Com'è facile dimenticarcene.
Stimiamo il valore delle cose secondo i notri canoni, anche quando non ci riguardano. E ciò è un errore. Presumiamo di riassumere il peso di una delusione, di una mancanza, di una dimenticanza attraverso la nostra sensazione del peso, e così facendo non consideriamo che tale peso non grava affatto su di noi, ma anzi, lo stiamo per "scaricare" sulle spalle di qualcun altro.
E noi, noi che quel peso lo riceviamo, quel sacco di farina o di cemento, quella mole di responsabilità non nostre... siamo forse così attoniti e scombussolati che non riusciamo a esporre il nostro pensiero, ad interpretare adeguatamente la nostra delusione, a cercare di indurre un'inversione di rotta.
Spesso penso a quanto tempo ho perso... e mi rendo conto che molto di esso è andato perdendosi a causa delle scelte di qualcun altro che, forse, non ha preso in considerazione la mia voce, che non ha notato i miei occhi bassi, il mio silenzio, le mie mani incrociate o i miei sospiri desolati. E in tutto ciò, mi sono spesso chiesto se ho diritto di provare del risentimento, della rabbia, del rigetto o che altro sia. Non ho mai azzardato l'ipotesi di un errore volontario, di una negazione di diritto fatta per pura fine a se stessa. So solo che le motivazioni che accompagnavano quel "no" erano deboli, banali, o peggio assenti.
Spesso penso a quanto tempo ho perso, e a quante volte, forse, avrei dovuto rivendicarlo o farlo notare, anche perché assieme a quel tempo ho perso anche, un granello alla volta, buona parte di serenità e di entusiasmo. Di naturalezza.
Ho perso il tempo che non riavrò mai, e che resterà in quel luogo stagnante dove stanno le cose inutilizzate o non sfruttate, puramente lasciare passare (o passire). L'ho perso per volontà delle persone più care. E loro non solo non se ne curano, ma lo hanno pure scordato.
E' proprio vero che le cose perse sono quelle di cui si può sentire di più la carenza. E ciononostante, anche se provassi avversione, ira, rancore o altro, non me ne tornerebbe un solo minuto, un solo secondo.
A.