Spesso le voci più sommesse sono quelle che hanno maggiormente da dire. Perché è così che nascono le poesie, in modo tacito e silenzioso. Al massimo, con il lieve mormorio della penna sulla carta, come il titolo del libro si propone di sottolineare. Attraverso queste poesie sviscera il filo rosso del discorso: le cose non dette, quelle cose inevitabilmente taciute che fanno male, che tormentano l’anima, che premono alla porta dell’inconscio, e trovano sfogo solo nella notte, nel silenzio, nella solitudine. Pervaso da questo dramma interiore, il poeta trova la pace in tutto ciò che è oscuro, la luna, la notte, le ombre. Ed attraverso questo sottile e lento logorio si disvela la trama dell’affanno e del nervosismo giovanile, che scatenano l’ardore dell’ambizione e l’incorreggibile inettitudine.
Murmure è il dipinto dell’amara presa di coscienza dell’esistenza di un vuoto interiore che tuttavia brucia dentro, che non lascia alcuna via d’uscita se non quella di spaccare in due il proprio ego e poi ricomporlo non appena la luce del giorno smette di scagliare i suoi raggi. Il conforto nella notte, la voglia di dormire trovano la loro collocazione nel desiderio della pace. Il poeta si accorge che nulla è più come un tempo, ed ogni passo lo avvicina alla fine. Il pensiero della morte è sempre lì che lo accompagna, è l’altra faccia di una stessa medaglia.
Regolarmente si percepisce la sensazione di affondare e di andare avanti per inerzia, tra il lasciarsi cullare e l’impoverimento interiore, dilaniato dall’incertezza e dalla disillusione. Affondare è una delle sensazioni più ricorrenti della depressione. C’è qualcosa del passato che il poeta ha dimenticato (di proposito?), ma che ora torna a premere alle porte dell’inconscio.
Quella che è solo un’impressione, ad un certo punto del libro viene esplicitata in certezza: il poeta ha dimenticato una parte del suo io. È il se stesso che ha soffocato, per forza di cose, a causa delle esperienze della vita, ma di cui, nel profondo, sente una impotente mancanza. È la parte che rendeva vivo ed emozionato l’uomo, ma che ora è morta (“sono il boia della mia testa”). La personalità s’è frammentata; l’ego è precario, l’uomo va in pezzi e si scioglie. La sensazione di follia comincia quando l’anima è spaccata. È successo, si è spaccato in due, dialoga con se stesso, tra “voglia di esistere, / di non esistere”. E l’anima così dilacerata affonda in un ciclo di eterno annichilimento, finché giunge, a quanto pare in un momento di sanità, la stupefatta, flebile domanda: “Sono ancora vivo?”.
Anche il sangue è abbastanza ricorrente, perché il sangue è il fluido vivente, è la vita che pulsa sotto la pelle. Ed attorno, ma esternamente, a tutto questo tormento interiore, ci sono gli altri, le altre persone. Ma non il loro conforto, bensì il volto statico ed immobile di chi non sa cogliere la rivelazione di dolore che si cela negli occhi di chi soffre. E così, l’incomprensione altrui lo condanna ad un isolamento indesiderato, ma inevitabile. Perché quando nessuno intorno a te ti conosce veramente, tutto diventa piatto, uniforme, squallidamente uguale.
Alla fine di tutto, è sempre la notte che giunge a placare gli spasimi, a donare il proprio conforto. Guardare il cielo aiuta a dimenticare, o, perlomeno, a sopportare gli affanni della quotidianità. Malgrado tutto, ancora resiste la fiducia in un futuro migliore (“il grido luminoso del domani”). Sì, ogni tanto qualche spiraglio sembra proprio arrivare dal cielo, dal “fascio innocuo ma fulgente di stelle”.
Perché amare tanto la notte? Forse perché la notte, così come il chiudere gli occhi, nasconde le cose e permette di guardare meglio dentro se stessi offrendoci una nuova materia da plasmare. Solo allora possiamo di nuovo ascoltare noi stessi. La notte non dà forma, ecco perché è rincuorante, accoglie tutti in modo equo, con le stesse sfumature. In questo senso si può dire che la notte è vera, e, come la verità, non ha bisogno di parole.
Ecco perché posso dire che Murmure è davvero il rumore delle cose non dette.
Marco Sutti
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