Ciao a tutti!
ritorno qui dopo diversi mesi di assenza. Doveva essere un normale inframezzo tra un articolo e l'altro (uno dei quali ho pure mancato di condividerlo: lo farò ora) ma gli eventi mi hanno allontanato dal mio amato Metathymos per più tempo di quello che avrei voluto.
La situazione attuale, il Covid, ha colpito direttamente la mia famiglia a inizio Marzo, portandosi via mio padre. Ha portato via tantissime persone, prostrandoci tutti e mettendoci in condizioni ristrette e sollevando tantissime polemiche e punti interrogativi.
All'epoca - metà febbraio - avevo steso un articolo per Le Salon Musical in cui recensivo il concerto di Mihail Pletnev presso la Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Un concerto che fece parlare molto, avendo lasciato tutti sconvolti per la bellezza e l'impatto forte sui presenti.
Eccolo:
"Pletnev a
Milano: fra Schubert, Čajkovskij
e rivelazioni poetiche
Un ritorno
che ha scosso gli animi di molti, quello di Mikhail Pletnev alla Sala
Verdi, lo scorso17 Febbraio per le Serate Musicali milanesi.
Pletnev da
sempre lascia il segno come pianista capace di interdire – ne bene
e nel male – l'orecchio e il cuore di molti ascoltatori; solleva
tanto polemiche quanto esaltazioni, pareri discordanti, seduzioni e
disturbi. Trascina dietro di sé le masse che ne apprezzano le scelte
interpretative, il controllo sovrumano del suono e le personalissime
visioni sulla musica, così come quelle che in esse,
differentemente, ci vedono artificiosità, maniera.
Già un anno
fa si era parlato di lui, in riferimento a un'altra sua apparizione
in Sala Verdi, quale musicista assoluto, assorto e distaccato allo
stesso tempo, capace di aprire finestre su mondi che altri non
sembrano scovare; un esasperato curatore del suono, che insegue
un'idea che pare quasi presistente, disegnata sul silenzio come
un'afferrabile chimera, tanto forte da riuscire a spingere le
oscillazioni di velocità e le articolazioni di fraseggio al limite
senza perdere un'impressione, condivisibile o meno che sia, di forte
e lucida coerenza interna.
Ma il
concerto dello scorso Lunedì ha avuto veramente qualcosa di sentito
e compreso da tutti, qualcosa di estremamente convincente e
penetrante. Tralasciando per un attimo tutto ciò che riguarda il
“puro” pianismo di Pletnev, le sue scelte di suono, di tempo, di
agogica e quant'altro, pare che il pianista russo abbia offerto al
pubblico milanese un concerto tanto destabilizzante quanto
unanimizzante, inclusi i frequenti “però” che in altre occasioni
avrebbero potuto ottenere parimenti eco, o le oscillazioni di
atteggiamento dello stesso pianista, capaci di influenzare anche di
molto la percezione che se ne riceve.
Il programma
prevedeva due Sonate di Franz Schubert, l'Op.164 D.537 in La
minore e la più nota Op.120 D.664 in La maggiore, e l'intera
raccolta delle Stagioni Op.37a di Čajkovskij.
L'attacco
del primo movimento, Allegro ma non troppo, della schubertiana
Op.164 pare non del tutto convinto, l'attacco è pieno ma al contempo
avviene mollemente, come se Pletnev non riesca ancora mettersi del
tutto a proprio agio sul palco. Per carità, il suono è sempre
meraviglioso, non mancano guizzi davvero interessanti, trattamenti
semi-sinfonici del pianoforte (che mettono in risalto le doti di
direttore dello stesso musicista) ma si torna a quel senso di
“estraneità” non solo dalla Sonata, ma dal luogo e dal tempo in
cui il pianista si trova. Un distacco che è difficile definire
quanto voluto oppure inevitabile e schiacciante. Soltanto quando
sopraggiunge il tema in la bemolle maggiore nello sviluppo si ha la
sensazione di essere “con lui”: noi ascoltatori, ma soprattutto
la Musica in rapporto con il pianista.
Anche
l'inzio del tempo successivo, Allegretto quasi andantino, ha
un'apparente poca partecipazione istintiva – innegabile, comunque,
un bellissimo balancing fra il legato della mano destra sopra
lo staccato della sinistra, ottenuto quasi integralmente senza
l'uso del pedale di risonanza – per poi sterzare verso una maggiore
empatia con il pianoforte.
Quasi
opposto è l'approccio al conclusivo Allegro vivace, movimento
in cui Pletnev pare cominciare davvero a divertirsi, lasciarsi
andare; lo stesso vale, in modo ancora più evidente, per il terzo
tempo della Sonata D.664, Allegro, eseguito con un
piglio alquanto rapido e leggero, mettendo in luce tutte le sue
risorse sopraffine: scale rapidissime in pianissimo sciorinate con
nonchalance, temi cantabili sensibili, accompagnamenti ben
caratterizzati; fraseggi interessanti e imprevedibili che, qui,
lasciano l'uditorio quasi esaltato, richiamando il pianista più
volte sul palco a conclusione della prima parte del concerto.
E' davvero
sorprendente vedere come le personalissime scelte interpretative di
Pletnev siano sorrette da una enorme convinzione. Ma non quella
convinzione, quasi superba, di un pianista in possesso di doti
inumane che ne fa sfoggio: Pletnev è un vero cercatore, uno
scultore. La sensazione che si riceve è quella di un musicista il
cui sguardo sulla musica, sui brani che esegue di volta in volta, non
sia frutto di un mero occhio analitico sulle parti o sulla tradizione
esecutiva, ma su una rivelazione interiore che sgorga da sola, e che
la perfetta connessione mente-corpo-spirito del pianista riesce a
portare all'esterno come una rivelazione quasi profetica.
Perché, per
quanto sia possibile criticare le interpretazioni di Pletnev, la
sensazione di coerenza interiore e di chiarezza di visione è
schietta, e innegabile: può sembrare un po' troppo personale per
alcuni, ma Pletnev porta avanti tutto ciò con la fede sincera di un
devoto alla Musica che non è certo scevro da domande e riflessioni
profonde.
Tornando a
Schubert, e alla Sonata Op.120, non si può non fare menzione
ai primi due tempi, e in particolare al secondo, Andante,
probabilmente il picco più alto di tutta la serata, ha commosso
l'intera Sala Verdi. Non sono mancate, infatti, nei giorni
successivi, numerose condivisioni sui social, sottolineando la
bellezza “orchestrale” e di concezione di questo meraviglioso
adagio, parso come un nuovo pezzo per quanto rimanendo comunque
quello che tutti conoscono. Il suono pastoso eppure come lontano,
appartenente a un orizzonte più ampio e distante, melodie tracciate
con enorme dolcezza, una dolcezza consapevole, come un sapore ben
conosciuto.
La seconda
parte ha visto una esecuzione di pari valore. Le Stagioni Op.37a di
Čajkovskij sono state
cesellate una ad una, con pazienza e uno sguardo acuto sulla
scrittura, portando la raccolta a “racconto”. A libro di brevi
fiabe, ad album di fotografie.
Partendo da
Gennaio, Au coin du feu, l'impronta narrativa è eloquentissima –
il suono quasi da quartetto d'archi o di fiati – e ciascun ritorno
del tema principale ha qualcosa di nuovo. Bellissima la sezione
centrale, con degli arpeggi liquidi e delicatissimi.
Altri
momenti meritevoli di considerazione sono stati sicuramente Aprile,
Maggio e Giugno. Un trittico che si sarebbe quasi potuto isolare
quale micro-raccolta a sé stante. Il primo, Perce-neige, con un
accompagnamento perfettamente incasellato senza mai cedere (altro
segno di come Pletnev abbia, parimenti a visioni molto personali,
attenzioni molto oggettive sugli aspetti tecnici e di partitura) ed
una melodia tenera, fragile ma mai debole. Quindi Les nuits de mai,
meno “sentimentale” rispetto ad altre esecuzioni, eppure
schiettamente parlante: a tratti è parso quasi di udire un brano di
Robert Schumann, con la figura del suo poeta che parla. E poi Giugno,
Barcarolle, eseguito più mosso che in passato – che risulta
nonostante ciò ancora più suadente e di impatto – tiene viva la
tensione e l'attenzione fino agli ultimi palpiti delicatissimi.
Ancora da
menzionare, prima della chiusa con Noël
di Dicembre, è Novembre, Troika, che al pari dei terzi movimenti
delle sonate schubertiane offre a Pletnev tutte le occasioni di
stupire il pubblico ancora una volta: davvero sconvolgenti certi
rapidi mormorii in pianissimo, anche nel registro medio-grave, di una
cristallinità veramente preziosa.
I continui
applausi richiamano il pianista per ben tre bis: il celebre Impromptu
in Sol bemolle maggiore Op.90 n.3 di Schubert, eseguito
meravigliosamente con un controllo del suono al limite del possibile;
la Mazurka in la minore Op.67 n.4 di Chopin (notevole
la sezione centrale) e il Rondò in Re maggiore K.485
di Mozart."
L'articolo è possibile leggerlo anche sul sito de Le Salon Musical a questo link.
Sperando sia questa la ripresa dell'attività di questa pagina a cui tengo tanto.
Un saluto a tutti!
A.
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