Rieccomi qui!,
questa volta per una occasione per me assai gradita, per quanto si tratti di un'altro dei miei articoli di recensione scritto per
Le Salon Musical. Questa volta si parla di un pianista che mi sta piuttosto a cuore, e sul quale non è stato così facile scrivere senza inciampare in slanci "di parte":
Mikhail Pletnev.
Riporto di seguito il testo completo, che potete leggere anche sul sito a questo
link:
"Mikhail
Pletnev può oggi essere considerato senza indugi uno dei più grandi
pianisti viventi. Eppure, non è raro riscontrare – fra il pubblico
quanto fra i musicisti – una notevole disparità di opinioni a suo
riguardo: da una parte c'è chi “pende dalle sue dita”, vedendo
in lui una sorta di interprete “totale”, profondo e indagatore;
dall'altra, chi invece trova nel suo pianismo qualcosa di forzato, di
troppo ricercato o, quanto meno, di poco spontaneo.
Quello che
forse si può asserire con una certa sicurezza, è che in lui non vi
è nulla di meramente istrionico, niente che miri a un presunto
irrinunciabile anticonformismo (bisognoso di essere riconosciuto dal
pubblico). Al contrario, curato sembra il suo atteggiamento nei
confronti di tutte le sfaccettature di una
esecuzione-interpretazione. Il suono, primo su tutti, sembra
costituire una dimensione centrale – e centralizzata – un aspetto
mai dato per scontato, tanto meno trascurato. Ogni nota ha il suo
significato ed è portatrice di una parte del senso complessivo del
quale quel tal pezzo o l'altro sono portatori, pertanto ogni segno,
ogni figura si connota come parte essenziale, come elemento di
continuità e di eloquenza. Il corpo, il respiro, o spesso la stessa
durata di una nota nel tempo, si piegano di fronte ad esso, si
plasmano rendendosi adattabili a quell'esigenza che non ammette mai
deroghe. C'è chi recepisce questo come “licenza” o come una
presa di libertà a volte eccessiva. E, a primo impatto, gli si
potrebbe dare ragione: di fatto, capita sovente che alcune cellule
tematiche, alcune anacrusi o alcune pause possano espandersi più del
dovuto, o ritrarsi-contrarsi; che alcune sonorità indicate sulla
parte vengano visibilmente sostituite, o che alcuni andamenti siano
sensibilmente alterati. Inequivocabilità che rendono apparentemente
inconfutabili tali affermazioni.
Ma c'è
anche chi vede in lui un musicista carismatico, fiero, capace di dare
volti ancora non svelati alla musica, ai fraseggi in particolare. Un
pianista generatore di coerenze nuove, altre e possibili, anche
quando i suoi bisogni espressivi possono far scalpitare sulla sedia i
più aggrappati allo spartito o “alla tradizione”. C'è chi si
porta ai concerti spartiti tascabili ed annota i “pro” e i
“contro” delle esecuzioni (ma anche qualche trovata di Pletnev
che giudica interessante). C'è chi rilegge il programma di sala e,
dando un colpetto di gomito al vicino, gli sussurra con un velo
d'irritazione: “ma non è un po' lenta questa Arietta?!”. C'è
chi vede un'assolutezza disarmante, pacificante e sconvolgente al
contempo, una attitudine ad osare dettata da una comprensione
musicale propria ed extra-testuale, che va a toccare forse gli
intenti. Un incanto reale, non artificioso.
Un aspetto
certo non trascurabile è la sicurezza, il governo con il quale
Pletnev porta avanti le sue – pianificate o “di pancia” che
possano essere – scelte. Non c'è niente in lui e di lui che dia
adito a sospetti, a credere che ci sia dell'ostentazione o della
fragilità d'idee. Procede imperterrito e imperturbabile, quasi come
suonasse da solo, dentro se stesso, in un teatro tutto suo (non ha
mancato, di fatti, di dire in un'intervista «non
suono per il pubblico, non avrebbe senso: suono per me stesso»)
come a dirci che, in tutto il suo lungo, profondo sguardo
nell'abisso, non trova altre visioni, altre risposte più credibili,
più vere di quella che ci propone.
Inutile dire
che Pletnev è sorretto da una tecnica formidabile, un'ottima
precisione e chiarezza nell'articolazione, un intimo rapporto con i
pedali – memoriabile e sorprendente l'esclusione totale di quello
destro, di risonanza, nella fuga della Sonata
Op.110 di Beethoven, eseguita nella prima
parte del concerto, mantenendo un appoggio, un legato ed un suono
davvero stupefacenti – e una capacità di stabilire
“orchestrazioni” della scrittura pianistica da lasciare
increduli. Tutto ciò è per lui garanzia, consentendogli di creare
vere e proprie magie.
Giovedì 8
Novembre scorso, all'Auditorium del Conservatorio di Milano, il
programma era di stampo sostanzialmente classico e pre-romantico.
Nella prima parte, la scelta della Sonata
K.282 in Mi
bemolle maggiore di Mozart può fare
riflettere non poco su come l'apparente semplicità di un brano possa
lasciare quasi interdetti di fronte ad un'interpretazione di alto
livello. Sin dai primi accordi dell'Adagio,
quella stratificazione/strumentazione dei contenuti accennata prima e
quella tendenza a gerarchizzare le voci – senza che nessuna di esse
resti discriminata – prende il sopravvento, ed ecco che anche un
arpeggio o un ribattuto prendono vita e si dotano di fascino,
rivelando il loro essere necessari e indispensabili, in quel esatto
modo e in quel preciso momento; la scrittura rievoca le atmosfere di
certe Serenate dello stesso compositore, grazie a un suono morbido,
plastico, mai percosso, nemmeno quando Pletnev si serve di attacchi
al tasto più brillanti. Bellissimi anche certi passaggi del terzo
tempo, Allegro, in
particolare la sezione centrale di elaborazione tematica, in cui lo
spirito cromatico diventa fulcro di espressione e discorsività.
Da Mozart si
passa a Beethoven, con la già citata Sonata
Op.110. Si entra in contatto immediatamente
con l'audacia del nostro pianista: le prime battute, solitamente
eseguite con una sonorità pacata, dolcemente introversa, si
ribaltano e tradiscono una emozione più pervasiva e appassionata,
meno cullante, in grado di accendere l'animo del compositore. Dopo la
sezione in arpeggi, quel Do
scandito, preso a mignolo quasi verticale, sospeso ben più a lungo
del dovuto, non è tale per tentare di influire banalmente
sull'attesa desiderante del pubblico (che tiene un silenzio surreale
per tutto il concerto) ma per lasciare che la sonorità si plachi da
sé, si riposi, e possa condurre altrove. La sezione di sviluppo,
incentrata prettamente sul primo tema, si fa invece sorda e indecisa,
con un mormorare della sinistra perfettamente legato e con una
pedalizzazione sapiente. Il secondo movimento ha un piglio
decisamente più seduto del solito, concentrandosi più sui contrasti
umorali, ritmici e sonori che su un impeto generale agitato, quasi
fosse la trascrizione di un brano per ensemble di fiati e alternasse
soli e tutti. Bellissimo il suono liquido della chiusa in maggiore.
Picco più
alto dell'esecuzione, l'Arioso dolente,
che si dispiega completamente afflitto, il suono è profondo ma come
sospeso, dando l'impressione volersi perdere – o meglio,
confondere – fra i ribattuti dell'accompagnamento, rifuggendo
l'ammissione di un cruccio tanto grande agli occhi esterni.
Dopo la
consueta pausa, Pletnev torna sul palco per una seconda parte ancora
tutta mozartiana e beethoveniana. Si comincia con la celebre
“Parigina”, alias la Sonata K.330
in Do maggiore, pagina eseguita da moltissimi grandi pianisti (uno su
tutti Vladimir Horowitz). Il primo tempo scivola sulla tastiera
leggero e frizzante, con una naturalezza d'articolazione
sconvolgente. Come per la Sonata precedente, ogni singola nota, anche
quelle che ornano in piccoli arpeggi o in rapidi arabeschi i temi
fondanti sono perfettamente chiare, senza alcuna futile
sottolineatura aggiuntiva: le dita sono libellule in piena sintonia
con il pianoforte, prestidigitano ogni cosa senza la minima fatica.
L'Andante ha una bella
sonorità, generosa e calda nelle sezioni in Fa maggiore, ma la parte
di vero effetto è quella in minore: il Fa ribattuto si fa sordo e
sempre più ossessivo, incupendo il tutto e regalando uno choc
inatteso, un colpo di malinconia che tenta di nascondersi ma senza il
successo sperato. Il Rondò finale somiglia al primo tempo per
chiarezza e brio, ma è di umore più giocoso, quasi uno Scherzo, e
non manca di farsi poderoso negli episodi in cui la sinistra ha un
disegno di ottave spezzate.
Conclude il
programma quella pietra miliare del repertorio pianistico che è
l'ultima Sonata di Beethoven, ovvero l'Op.111,
in Do minore. Qui Pletnev si avvicina, se si può dire, alla
perfezione dell'esecuzione: il fascino delle idee, la bellezza del
suono e della distribuzione delle voci, la sincronia dei passaggi a
mani pari del primo movimento (bellissimi certi “sussurri” nel
registro grave del pianoforte) e della conduzione del discorso
musicale colpiscono in pieno. Forse meno “personalizzata” della
Sonata Op.110, ciò
che lascia senza fiato è la famosa Arietta:
lasciando perdere le inutili obiezioni di alcuni presenti, che
sottovoce la etichettano subito “troppo lenta” (qualcuno possa
impietosirsi e dare ristoro al loro bisogno di difetti), una
morbidezza ed un clima di profonda elevazione mista ad abbandono
permeano l'Auditorium, il silenzio attorno al pianoforte si fa quasi
spettrale e il livello di introspezione cui assurge Pletnev inghiotte
tutti, arrivando all'ultimo accordo lasciando nel cuore dei presenti
una di germoglio di inquietudine, cresciuto invisibilmente nel corso
di un'apparente beatitudine.
Infiniti
applausi richiamano il pianista più volte sul palco, che, dopo una
piccola titubanza come di chi non ha preparato null'altro – perché
null'altro serve: cosa, ancora, dopo cotanta Musica? – sterza
ancora una volta e regala una bellissima interpretazione della Sonata
K.9 di Scarlatti. Questa volta è lui il più
aderente al testo: l'Allegro
indicato sulla parte non viene affatto tradito come dai più, ma
trova piena collocazione sotto le sue dita, fra i tasti del suo amato
strumento, nella famigerata chiarezza dei passaggi a mani pari e dei
trilli che compaiono qui e là, quasi piccole luci tremolanti.
Accompagno con qualche fotografia e vi rimando a presto!
Andrew