Ciao!
Rieccomi qui dopo qualche giorno. Ci sono state diverse cose in questo periodo che mi hanno assorbito completamente. Cose belle! Come la seconda e la terza serata del mio caro "Inserto Musicale", e il concerto della grande pianista Elisso Virsalazde, a Milano.
Per l'occasione ho steso una recensione per Le Salon Musical, che potete leggere sul sito della rivista, o sulla mia pagina Facebook personale, oppure qui sotto per esteso:
"La “poesia della gelosia”: Elisso Virsalazde
Un programma dalle molteplici letture quello proposto da Elisso Virsalazde nel suo recital, lo scorso lunedì, per Serate Musicali a Milano. La pianista incentra il tutto su tre soli autori: Beethoven (che inizia, “spezza” e chiude il concerto), Schumann e Haydn.
Un elogio
alla forma breve, contornata da forme più estese? Sì. Un più o meno dichiarato
richiamo alla forma delle variazioni su tema? Sì. Ma anche la curiosa scelta di
incentrare le due parti del concerto su due “tonalità” cardine: Sol la prima, e
Fa la seconda.
Dopo un
inizio disinvolto e immediato – impressionante come Elisso non faccia quasi a
tempo a sedersi sulla panchetta che subito attacca alla tastiera, con una
sicurezza e una centratura di suono invidiabili – con la Sonata Op.49 n.1 in Sol minore di Beethoven, stupenda per
musicalità fluida e chiarezza di tocco; il suo atteggiamento sembra farsi
opposto nella successiva Sonata “alla
tedesca”, Op.79, in Sol maggiore:
la leggerezza di spirito (da non confondersi con superficialità di
disposizione) viene spodestata da un approccio molto più serio, se non serioso –
il che fa quasi strano visto lo spirito popolareggiante della sonata. Tutto è
molto calibrato, ogni gesto non lascia spazio al caso, eppure appanna un po’
quella “libertà di essere” che si era vista immediatamente nell’Op.49 n.1. La conseguenza è – non che
determini qualche pedanteria, o perdita di interesse – una lieve carenza di
respiro, forse una scelta, ma in particolare nel secondo tempo, sorta di
abbandonata e scanzonata Barcarolle,
di non grande restituzione. Completamente opposto il finale, frizzante e multi-colorito,
un Vivace pieno di entusiasmo che lascia
del tutto convinti.
Seguono le
celebri Kinderszenen Op.15 di
Schumann, possibilmente il momento più alto della serata. Forse per la brevità
dei singoli pezzi, forse per il loro carattere schietto, ma Elisso li elenca
uno dopo l’altro quasi senza soluzione di continuità, ognuno ben centrato, in
una visione molto chiara. Curiosa la scelta di dare al n.5, Glückes genug (Abbastanza felice), un’aura
di felicità poetica, più che reale – tenendo conto del fatto che il precedente,
Bittendes Kind ovvero “Fanciullo che
prega”, termina in sospensione sulla settima di dominante di quel che segue – facendo
della soddisfazione delle implorazioni del fanciullo un ritratto più delicato
che espressamente gioioso. Lo stesso approccio un po’ controllato in Traumerei, bellissimo nel suono e nelle
idee musicali, ma non “semplici e che si spiegano da sé” come disse a Clara
Wieck lo stesso Schumann: il tuo tratto è curato, quasi come venato dall’intenzione
di guidare chi ascolta verso la propria – misteriosa – visione. Molto belli gli
ultimi due, Kind im Einschlummern
(Bimbo che si addormenta) con la sua cantilena evidenziata nella mano sinistra,
e Der Dichter spricht (Il Poeta
parla), del quale il lato di meditazione metafisica e di “epilogo interiore” sono
assolutamente centrati.
Chiude la
prima parte il vivace Rondò a capriccio
Op.129, alias “La collera per un soldo perduto” e anch’esso in Sol maggiore,
vivace nel suo andamento ma non tanto nello spirito: l’abbondanza di controllo
e il bisogno di chiarezza della pianista frenano un po’ il lato giocoso da morceau d’esprit, soprattutto nelle
riprese variate del tema “à l’hongroise”, che appaiono meno imprevedibili e curiose.
La seconda
parte si apre con le Variazioni in Fa
minore di Haydn, spostando l’asse tonale del concerto un tono sotto. La
Virsalazde qui non lascia spazio a sentimentalismi o a pieghe di troppo: va
dritta alla meta, pur non dimenticando nulla. Tutto è molto chiaro, addirittura
delineato, cristallino; forse un tentativo di richiamare un’esecuzione su altro
strumento assai meno recente dei pianoforti odierni. Anche nella conclusione
non cede che un minimo, quasi impercettibile, indebolimento di tempo,
concludendo come se la musica uscisse dal pianoforte e se ne andasse via
altrove, senza preavvisi.
Segue l’Andante “Favori” in Fa maggiore WoO57 di
Beethoven (quello che inizialmente doveva occupare il posto del secondo
movimento della celebre Waldstein), e qui l’aura, diciamo, austera della
pianista – che, però, non manca di mostrare una vena di timidezza ogni volta
che si alza dallo sgabello per gli applausi, portando un dito alle labbra – trova
un posto molto confacente: il suono è bellissimo, il fraseggio torna un po’
alla naturalezza della prima sonata beethoveniana in programma.
Quindi
segue Arabesque Op.18 di Schumann (in
Do maggiore, dominante di Fa), che sfila via leggera come un velo nonostante le
sezioni centrali più pastose, per arrivare alla Sonata Op.57, detta sovente “Appassionata”, di Beethoven. Questo il
secondo picco del concerto, con un primo tempo che non lascia nulla al caso
eppure trasmette comunque naturalezza; un Andante
con moto (anche qui una forma di tema e variazioni) molto bello nonostante il
poco respiro generale, e una chiusura con l’Allegro
ma non troppo e il Presto, focosi
senza mai cedere a frenesie eccessive, con quella chiarezza di dizione e di
direzione che ha permeato tutto il concerto.
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